“Arrisetto“, ecco cosa non riesco a trovare (per i continentali, non trovo pace).
Stanotte mi sono svegliato e ho pensato ai giorni e le notti in ospedale con mio padre, quando dopo il primo edema polmonare non potè che essere ricoverato.
Ho ricordato il giorno in cui in ospedale mi chiese di aiutarlo ad “arrisettarsi” (ossia “sistemarsi”, “quietarsi”), perché si vergognava di non essere “in ordine” davanti ai familiari, ai medici e agli infermieri. Erano i giorni in cui, nonostante tutto, sperava ancora di poter uscire dall’ospedale e poter partecipare ad un evento familiare importante (a cui non arrivò vivo). Quei giorni voleva fare la barba e sistemare i capelli.
Gli proposi di far venire un barbiere, ma volle che la barba la facessi io.
Durante quei minuti a pochissimi centimetri dal suo viso, con il rasoio in mano e una bacinella sulle gambe, ricordo che pensavo alle esperienze che legano un padre e un figlio. A questi piccoli, semplici momenti che poi ci portiamo dentro. Ai ricordi d’infanzia e non solo, che, se raccontati, sembrano stupidi, ma che fanno di noi ciò che siamo. Una persona mi ha raccontato una sera il ricordo commuovente di come da bambina e non solo aiutava il padre a sbucciare i fichi d’india. Mi ha spiegato come questo ricordo si rinnova ogni volta che ripete quei semplici gesti.
Lì ho capito cosa vuol dire un legame. Fare la barba per me, certi giorni, è un modo per ricordare quell’evento, per ripetere dei gesti e pensare a quando magari non potrò più compierli. Sono ricordi e legami che non potranno mai essere gli stessi di quelli che ci legano a chiunque altro.
Quel giorno, a quel punto, in quella stanza d’ospedale, non importava che ci sia stato o meno un buon rapporto tra noi o quanto spesso avessimo parlato o quante liti ci furono o quante incomprensioni o quante parole furono dette con rabbia (e oggi si vorrebbero cancellare). A quel punto, in quel momento, c’erano solo un padre e un figlio.
Il mio viso sfiorava quasi il suo. Potevo sentire l’odore penetrante di ospedale sulla sua pelle e nel suo respiro. Vedevo la sua sofferenza celata e la paura di essere davvero sull’ultimo giro di giostra, con le preoccupazioni per noi figli.
Non credo dimenticherò mai l’imbarazzo nei suoi occhi. L’imbarazzo di non essere più autosufficiente, di dover essere accudito dal figlio davanti al quale era sempre stato solido e forte. Era il momento in cui i ruoli si invertivano definitivamente ed io sarei dovuto essere solido e forte, rassicurante e sorridente anche quando non c’era più da sorridere.
Non ci siamo detti una parola eppure penso che mai come in quel breve passaggio di tempo ho conosciuto la sua fragilità come fosse la mia e ne ho avuto compassione perché non avrei mai più potuto farci niente.
Da quel giorno non ha più avuto molta importanza chi dei due abbia sbagliato di più nella vita, visto che eravamo ormai entrambi arrivati ad un limite oltre il quale tutto sarebbe stato diverso.
E mi sono detto che forse è così per tutti, quando ci spingiamo a guardare l’abisso in cui stanno sprofondando le persone care che ci sono state prestate dalla vita.
Lì allora non importa davvero chi dei due abbia sbagliato o sbaglierà di più nella vita.
Bisogna solo trovare “arrisetto“, una volta per tutte.