“Disruptive” dreams

L’avrete già sentita o letta. E’ una delle parole più di moda: “Disruptors”, “Disruption”,“Disruptive” …

Essere “disruptive” è quello che viene richiesto alle startup di oggi.
La maggiore paura di molte organizzazioni è la possibilità che arrivi un concorrente capace di una “disruption”, ossia che un player nuovo e agile possa sovvertire le regole del settore rendendo obsolete e fuori mercato aziende “tradizionali”. In siciliano, sarebbero dei soggetti che nascono per “rompere i cabbasisi”, cioè rompono regole che per decenni hanno disciplinato un settore.

E’ quello che è accaduto con l’arrivo di Amazon nel mercato editoriale o di Uber nei servizi taxi o con Airbnb nel settore degli hotel. Sono molte le piattaforme che stanno letteralmente seminando il panico in settori tradizionali e spesso protetti dalle regolamentazioni nazionali.

Alcune organizzazioni hanno scelto un approccio difensivo preferendo imitare il modello di innovazione di questi soggetti o, più spesso, selezionando startup che potrebbero essere “disruptive” in modo da avere direttamente in casa l’innovatore del futuro (e non averlo come concorrente).

Si è dimenticato però che i veri disruptors sono stati tali perché hanno davvero introdotto un’innovazione che ha rappresentato una discontinuità (spesso talmente forte da essere trasversale), non hanno “copiato” cose fatte da altri o apportato leggeri miglioramenti a processi o situazioni già esistenti.

E’ giunto il momento per le aziende tradizionali di imparare ad essere “disruptive”, soprattutto per beneficiare del “fattore campo” (in poche parole, conosco il settore, i propri punti di forza e di debolezza, posso anticipare e indirizzare il cambiamento). E’ necessario un cambio di approccio al mercato e reale convinzione nelle opportunità offerte dalla Digital Transformation.

Mi chiedo, però, se gli esempi citati sono più dei “market destructors” che “market disruptors”.
Intendo dire che non sempre le startup qualificate come “Disruptors” sono genuinamente dei nuovi modelli volti a promuovere l’interesse e la creazione del valore per le filiere (inteso nel senso più ampio del termine e non solo sotto il profilo economico-finanziario). In alcuni casi, le startup non hanno creato nuove “industries” o nuove “best-practices“, ma le hanno sostituite temporaneamente con modelli “sintetici” e preparati a tavolino, frutto di business plan che devono portare percentuali di ritorno di investimento a doppia o tripla cifra. Il fattore abilitante di questi player sono spesso la montagna di denaro immesso dagli investitori. Queste organizzazioni non stanno rimpiazzando un modello analogico inefficiente con uno digitale altamente efficiente. Stanno, piuttosto, sovvertendo un settore grazie ad un vantaggio competitivo (spesso temporaneo) basato sulla disponibilità di capitali.

Questo modello sta alle spalle di ciò che già viene chiamato “la bolla” di questi anni, ma, ciò che è peggio, rende gli investitori l’unico soggetto che può influenzare e determinare le sorti dell’azienda. E’ lo stesso modello che spiega perchè tante startup deviano drasticamente dal loro modello iniziale (i casi sono eclatanti) per riuscire a soddisfare le voraci esigenze degli investitori.

Tengo a precisare che non sono contrario al capitale di rischio e al supporto di soggetti che, per pura operazione finanziaria, investono in una start-up, ma sono contrario alla strategia di spingere i giovani imprenditori ad adottare tattiche aggressive che possono portare solo risultati nel breve periodo. Ergo, nessuna crescita organica, ma solo l’aspettativa di crescita esplosiva.

La mia contrarietà è legata al fatto che questi modelli non riescono a creare un reale ecosistema, in cui clienti, fornitori, dipendenti e tutte le parti interessate si scambiano valore in maniera sostenibile. Il focus è piuttosto centrato sul valore che potrà essere ottenuto dallo sfruttamento (nell’accezione peggiore) del lavoro (basti pensare ad Amazon o Uber) o del capitale (AirBnB). Questo modello di “digital disruption” è basato su personale ridotto all’osso e sovrautilizzato, sull’acquisizione o eliminazione di partner, distributori o fornitori. Basti pensare a cosa è accaduto per l’editoria con iTunes e Amazon.
Va inoltre precisato che non sempre questi “unicorni” sono già profittevoli, ad esempio Uber ha perso milioni di dollari lo scorso anno.

Se però le parole di Henry Ford sono ancora valide, i nostri dipendenti devono poter comprare i beni che produciamo. Alla lunga credo che questi modelli lasceranno ciò che di buono hanno (ossia nuovi principi di funzionamento e maggiore competitività). Credo anche che dovranno essere sovvertiti in modo che tutti gli attori della catena non dovranno essere fagocitati, ma contribuiranno al valore. Questa sarà la vera “disruption” portata dalla Quarta Rivoluzione Industriale: creare valore in maniera efficiente nel medio-lungo periodo realizzando beni qualitativamente migliori e contribuendo al benessere di tutte le parti interessate. Questa deve essere la vera promessa del business digitale.

E’ già accaduto: eBay è un esempio reale di “digital disruption”. Non ha distrutto nessun settore, ma ne ha creato uno completamente nuovo. Grazie a eBay milioni di persone possono scambiarsi beni in un modo che prima non esisteva. Ciò ha permesso l’ampliamento del business per soggetti tradizionali. E’ lo stesso caso di Google o di YouTube.

Penso quindi che dobbiamo puntare ad una disruption che possa essere “additive” non “extractive”. Se è vero che la Quarta Rivoluzione Industriale è basata sul networking, sullo sharing delle risorse e sui processi distribuiti perchè non possiamo pensare ad un Uber del futuro in cui i gli autisti sono anche attori che compartecipano agli utili e contribuiscono alla ricerca e sviluppo dei nuovi servizi (soprattutto nell’ottica delle smart-auto del futuro, in cui il driver non sarà più presente)? perchè non pensiamo a catene distributive maggiormente aperte al mercato locale capaci di sfruttare la rete di fornitori per consegnare i prodotti a domicilio? perchè non pensiamo a nuove forme di crowdfunding che possano cambiare i modelli di investimento coinvolgendo l’intera filiera produttiva?

Sono solo idee buttate a caso, ma se cambiamo la prospettiva, le startup potranno iniziare ad essere progetti di impresa con un chiaro ruolo di sviluppo sociale ed economico, in cui vengono definite delle strategie di lungo periodo. Insomma, potranno veramente iniziare a “rompere i cabbasisi”.

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Essere imprenditore significa lavorare tanto, pensare sempre alla tua azienda, vivere con la tua creatura in testa giorno e notte. Il mio lavoro e, quindi, questo blog contengono la sintesi e la metafora di una vita vissuta alla ricerca di qualcosa capace di soddisfare la mia curiosità e il mio desiderio di mettermi alla prova senza limiti o preconcetti.