Smartworking e innovazione

Ma ve lo ricordate come si viveva prima? Per mio padre, mio nonno, i miei zii il tempo del lavoro e della casa erano chiaramente distinti. Le ore del giorno avevano una collocazione ben precisa, distinte sia nel tempo che nello spazio.
A pranzo a casa tutti insieme, la mattina in ufficio, dopo pranzo di nuovo in ufficio, la sera con la famiglia.

Questa suddivisione era custodita gelosamente perchè rappresentava un confine tra vita professionale e privata.
Per mio padre, u
na telefonata dall’ufficio (non al cellulare, ma al vecchio telefono fisso con il disco) la mattina presto, a pranzo o la sera era certamente di importanza assoluta. Qualcosa di grave doveva essere accaduto oppure doveva essere una “camurria” senza precedenti.

Se dovessi spiegare come si vive e lavora oggi a mio nonno o anche a mio padre credo che non capirebbero, anzi penso mi prenderebbero per pazzo. Credo che non riuscirei a spiegare come la connessione costante con il mondo professionale grazie ai moderni telefoni, tablet, pc, orologi (con tutto quello che comportano), stia annullando completamente gli orari di lavoro, la distinzione tra vita professionale e privata, i fusi orari e persino le pareti delle nostre case e dei nostri uffici.

Non credo che riuscirei a spiegare come oggi sia possibile lavorare da una caffetteria esattamente come se fossi in un ufficio e che la scrivania serve sempre meno, che si tende a lavorare da casa e che nulla è più definito come prima (appunto smartworking).

I luoghi di lavoro e i tempi relativi non hanno più confini precisi e di conseguenza le nostre relazioni sociali ne risentono. I luoghi di lavoro stanno anzi diventando sempre più ambienti in cui le persone lavorano, giocano, consumano e si relazionano, sempre e dovunque.

Da persona che da sempre vive grazie alla tecnologia, che disegna soluzioni e che tenta di applicarla ai contesti quotidiani, mi chiedo se lo scopo degli attuali strumenti tecnologici sia ancora quello di permettere alle persone un accesso rapido alle informazioni in modo da essere liberi di fare altre cose. Insomma, la tecnologia davvero rende le nostre vite più semplici?

Vi invito a guardare un breve video pubblicato da The Guardian, in cui lo smartworking viene addirittura superato dalla robotizzazione del lavoro. Secondo le previsioni contenute nel video, nei prossimi 30 anni le macchine faranno il 50% dei nostri lavori. La Bank of England evidenzia che già le macchine fanno delle attività che sarebbero state impensabili solo dieci anni fa. Come potrei spiegare a mio padre quello che sta accadendo e che viene prefigurato in questo video?

Quello che è certo è che lo smartworking e la tecnologia attuale inducono una percezione alterata del tempo.
Sotto certi aspetti, mi pare di vivere come se il tempo  passasse più velocemente.

In un bellissimo articolo scritto da Judy Wajcman, sociologa alla London School of Economics e autrice di “Pressed for Time“: “The Future of Work: Working With Constant Connectivity“, viene evidenziata la doppia valenza dei dispositivi che ormai regolano la nostra vita. Da una parte magari possono farci sentire schiavi del nostro lavoro – veniamo definiti appunto “cyber-servi” –, ma sono anche capaci di farci lavorare in modo più efficiente, con un maggiore controllo del nostro tempo. Questo si traduce nella potenziale flessibilità e liquidità del lavoro attuale (magari ancora non così diffusa in Italia), per il quale il luogo in cui si è diventa un fattore secondario. Ciò non può che indurre nuove forme di conciliazione tra smartworking e famiglia o vita privata. Spetta solamente al nostro arbitrio scegliere che tipo di vita vogliamo vivere, che qualità di tempo vogliamo trascorrere e come possiamo usare intelligentemente la tecnologia.

Quello che mi piace dell’articolo è la tesi che “non siamo semplici ostaggi dei dispositivi di comunicazione, ma che la sensazione di essere sempre di fretta e costantemente oberati è il risultato di priorità e parametri che noi stessi ci siamo posti, in un approccio sbagliato nei confronti del tempo”.

Insomma, come in ogni cosa, dovremmo imparare (io per primo) a mettere dei limiti, adottando, da una certa ora in poi, la filosofia siciliana del #minnistaifuttiennu (per i continentali, è molto di più del non mi interessa, ma quasi una filosofia di vita) con relativo spegnimento totale di email, telefoni, sms, whatsapp, telegram e camurrie varie.  

Sfortunatamente, non è ciò che faccio io e questa lezione non l’ho ancora imparata.

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Essere imprenditore significa lavorare tanto, pensare sempre alla tua azienda, vivere con la tua creatura in testa giorno e notte. Il mio lavoro e, quindi, questo blog contengono la sintesi e la metafora di una vita vissuta alla ricerca di qualcosa capace di soddisfare la mia curiosità e il mio desiderio di mettermi alla prova senza limiti o preconcetti.